Il Classico Non Muore Mai: 2012

martedì 4 dicembre 2012

Un'icona del natale classico: le origini di Babbo Natale

Avete presente quel simpatico vecchio corpulento con la barba bianca e il vestito rosso e bianco? Sì, esatto, parlo proprio di Babbo Natale. Un classico, mi direte voi. Sì, e no: in effetti la figura che conosciamo noi ha poco più di cent'anni, ma le sue origini ne hanno molti di più.

San Nicola di Myra: diretto antenato di Babbo Natale

Tutto cominciò con un vescovo cristiano nella Turchia del IV secolo, Nicola di Myra, il quale secondo la tradizione avrebbe esortato i parroci della sua diocesi a recarsi in visita ai bambini della diocesi in occasione della commemorazione della nascita di Gesù con un piccolo regalo, cogliendo l'occasione per fare un po' di catechismo. La tradizione di donare dei piccoli oggetti simbolici si sovrapponeva così a quella romana già presente di farsi reciprocamente dei regali simbolici durante i Saturnali (dal 17 al 23 dicembre) e in occasione della festa del Natalis Solis Invicti. L'uso aveva già più di mille anni, nato quando Tito Tazio aveva portato come buon auspicio un rametto preso dal bosco della dea sabian Strenia, situato vicino Roma. Il nome della dea, che in lingua sabina significava salute, abbanodanza, prosperità, passò a designare anche i regali fatti in quell'occasione (stenae), e ancora oggi sopravvive nelle nostre "strenne editoriali", quei libri pubblicati la prima settimana di dicembre con lo scopo di proporsi come regalo di natale.

Dall'antichità classica alla Coca Cola: la storia di Babbo Natale

Ma torniamo a noi, e all'associazione dei regali con San Nicola. Con la diffusione del culto cristiano nei paesi nordici si diffuse anche la devozione verso il santo, così come la tradizione di fare doni ai bambini, e di nuovo si ebbe un fenomeno di soncretismo con le tradizioni precedenti. Infatti nei paesi scandinavi si narrava già che il dio Odino facesse una grande battuta di caccia insieme agli altri dei e ai guerrieri caduti che stavano nel Valhalla per festeggiare il solstizio d'inverno, e che in quest'occasione mettesse dei doni negli stivali di quei bambini che gli avessero fatto trovare paglia o zucchero per sfamare il suo cavallo volante Sleipnir. Fu abbastanza semplice sostituire il vecchio dio nordico con la barba bianca con il generoso vescovo cristiano, anche lui raffigurato barbato secondo la tradizione dei Padri della Chiesa. Ancora oggi, nei paesi anglosassoni rimane l'uso di appendere la calza al caminetto affinchè Santa Claus (una delle tante versioni dell'originario Sanctus Nicolaus) le riempia di dociumi se si era stati buoni o di carbone se invece si fosse stati cattivi.Questa tradizione germanica passò poi anche in America attraverso i coloni olandesi nel XVII secolo.

Lo spirito del Natale presente: un antenato del classico Babbo Natale

Va bene San Nicola, ma come si arriva al nostro Babbo Natale vestito di rosso? Si tratta di un altro sincretismo ancora: questa volta la figura ad essere assorbita è lo spirito del Natale medesimo, chiamato Father Christmas, che nella tradizione anglosassone era rappresentato come un signore pienotto vestito di un mantello verde orlato di pelliccia, ovvero quelle stesse sembianze con cui è raffigurato da C. Dickens lo Spirito del Natale Presente nel suo celebre Canto di Natale. Nel 1823 uno scrittore newyorkese, quel C. C. Moore autore della poesia A visit from Saint Nicholas, cambiò il colore del mantello da verde in rosso e fu con queste caratteristiche che alcuni anni più tardi l'illustratore Thomas Nast lo raffigurò sulla famosa rivista statiunitense Harper's Weekly contribuendo a stabilire la nuova iconografia. Di rivista in rivista, il nuovo Babbo Natale passa poi nella pubblicità: prima per la White Rock Beverages nel 1915 e in seguito negli anni '30 nella fortunata serie di pubblicità natalizie della Coca Cola diventando in breve il simbolo mediatico che è adesso.

La classica immagine di Babbo Natale: ne ha fatta di strada!

Niente immagini del consumismo neo-liberista quindi, bensì un concentrato di tradizioni e di culture dall'antichità classica al folklore nordico passando per la tradizione cristiana, un vero esempio di sincretismo culturale che giustifica appieno l'uso di Babbo Natale come esempio di icona globale. 
Un altro esempio del fatto che il classico non muore mai!

giovedì 29 novembre 2012

Gli strani usi del classico: il misterioso LOREM IPSUM

Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipisicing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore magna aliqua...Quante volte abbiamo visto questa classica stringa di parole misteriose sugli schermi dei nostri computer, mentre impaginavamo un opuscolo con Publisher, scorrendo le schermate di un sito in costruzione, o semplicemente aprendo la guida di Word. Ma vi siete mai chiesti cosa significhi?

Il Lorem Ipsum: un testo classico della storia della tipografia
Nuova vita per un testo classico latino

Alcuni anni fa un lettore di una rivista specializzata in impaginazione e composizione di testi fece la stessa domanda, e la risposta fu più o meno la seguente: "Non è latino, sebbene ci somigli, e non vuol dire nulla" (Before & After, vol. 4 num. 1). A dire il vero la risposta non è del tutto esatta: in effetti si tratta di latino, ma non di un testo di senso compiuto bensì di un insieme pseudocasuale di parole scelte da un testo classico, il De finibus bonorum et malorum di Cicerone, scritto nell'anno 45 avanti Cristo (trovate il testo dell'intero paragrafo qui). Se ne accorse per caso un professore di latino della Virginia, Richard McClintock, nel corso di una ricerca sulla frequenza di utilizzo di alcune parole nella letteratura latina.

Come ha fatto a finire nei programmi di impaginazione? In realtà il testo risalirebbe a molto prima che i computer nascessero, e sarebbe opera di uno stampatore del Cinquecento che, volendo illustrare diversi titpi di carattere, scelse di farlo riproducendo varie volte lo stesso testo di fantasia. Per far ciò, ma volendo che però il testo sembrasse reale e non una sfilza di caratteri a caso, optò per la selezione di parole a saltare da un testo esistente, probabilmente uno che aveva sotto mano al momento (le opere di Cicerone furono stampate in grande quantità fin dagli albori della tipografia). L'uso di questo testo come segnaposto crebbe con la diffusione della stampa, e divenne tradiizone usarlo per le bozze di impaginazione, una tradione ripresa dai moderni programmi informatici fin dagli anni '60 del secolo da poco passato. La sua rinnovata fortuna nel mondo anglosassone deriva dal fatto che, come spiegava l'editore di Before & After, "il testo riprende approssimativamente la frequenza con la quale le lettere ricorrono nella lingua inglese, il che spiega perchè al primo sguardo sembra così reale".

Da Cicerone al Mac: il lungo percorso del lorem ispum

A dire il vero, da una ricerca sommaria su internet, non vi è modo di rintracciare alcun dettaglio che aiuti a ricostruire la figura dell'anonimo stampatore cinquecentesco che avrebbe inventato il lorem ipsum. Anche se fosse stato inventato solo negli anni '60 il testo è certamente un testo classico dal punto di vista dell'origine, ma lo è ancor di più perchè in campo tipografico è ormai diventato per tradizione il segnaposto classico in fase di impaginazione e in mancanza di un testo reale. Ancora un esempio quindi del classico che vive, si trasforma, e rivive di vita nuova per segnare ancora una volta il nostro mondo, dimostrando in modo talvolta bizzarro che davvero il classico non muore mai.

sabato 24 novembre 2012

La cena formale classica: cenare come a Downton Abbey

Una delle occasioni in cui maggiormente la serie Downton Abbey ha avuto modo di affascinarci per la sapiente ricostruzione storica e per il fascino della materia in esame è la cena formale inglese. Attorno al tavolo da pranzo i personaggi sfoggiano tutto il loro fascino, gli uomini in cravatta bianca e le donne in abito da sera e raffinata gioielleria, e si intessono conversazioni che spaziano dalla politica alla vita di campagna, dalla società in generale alle ultime sulla più ristretta "alta società".

Cena formale nel classico stile inglese a Downton Abbey

Questo genere di intrattenimento, che coinvolgeva in genere un numero cospicuo di persone intrattenendole per diverse ore, doveva essere preparato alla perfezione ed eseguito come la più articolata delle coreografie. Il minimo prevedeva sei diverse portate, ma questo numero saliva tranquillamente a venti con l'aumentare dell'importanza dell'occasione, del rango degli ospiti o della volontà di ostentare ricchezza e fasto. Nonappena il maggiordomo annunciava che la cena era servita, il padrone di casa offriva il braccio alla signora di maggior riguardo, l'ospite di maggior riguardo faceva altrettanto con la padrona di casa, e poi tutti gli altri ospiti a seguire entravano a coppie nella sala da pranzo. 

Cosa si mangiava. La cena iniziava solitamente con una zuppa o un consommé, cui seguivano le immancabili ostriche (vera e propria ossessione dell'epoca), per chiudere la prima parte con un piatto di pesce, spesso salmone o asinello. In questa fase dei vini bianchi leggeri potevano accompagnare le pietanze, mentre i rossi (dei "claret", ovvero vini del Bordeaux) facevano la loro apparizione con le portate vere e proprie. Il primo piatto, l'entrée, consisteva di carne bianca senza contorni, ma guarnita di una salsa. A seguire veniva il secondo, il vero piatto forte di carne rossa accompagnato da un contorno abase di verdure. Il "terzo" -solitamente a base di volatili- avviava già verso la conclusione, accompagnato com'era da frutta di stagione. La terza fase della cena, il dessert, vedeva sempre più di una portata (almeno due o tre) tra le quali spesso delle crepes Suzette o una Charlotte di mele, il tutto innaffiato da vini liquorosi o passiti.

Etichetta a tavola in stile classico: ogni cosa al suo posto

Rigida etichetta. Come in ogni impresa cooperativa, anche la riuscita di una cena formale dipendeva dal fatto che ognuno dei partecipanti interpretasse il suo ruolo secondo le regole, che si trattasse di un commensale o di un valletto. Dalla disposizione dei posti a tavola alla posizione delle posate, tutto segue regole precise che sono spesso oggetto di interi capitoli dei libri di buone maniere. Lo stesso vale per i tempi della cena, dettati -contrariamente a quanto si possa pensare- non dagli ospiti ma dai padroni di casa: un cenno della padrona di casa alla moglie dell'ospite d'onore ed entrambe si alzeranno da tavola, seguite da tutte le altre signore, per ritirarsi in un salotto a bere il caffé e lasciare gli uomini nella sala da pranzo a discutere le materie più scottanti tra liquori e sigari.

Volete organizzare anche voi una cena formale in stile inglese? Ecco dove cercare ispirazione: 
  1. Mrs. Beeton's Book of  Household Management: oltre 2500 ricette in questo classico della cucina vittoriana pubblicato in numerose edizioni a partire dal 1861: volume I, volume II, volume III.
  2. Mrs. Humphry's Manners for Women  - Mrs. Humphry's Manners for Men: due interessanti libretti di buone maniere con capitoli dedicati alla tavola, da aggiungere agli altri già segnalati infondo al post "L'etichetta: ovvero la struttura dell'eleganza classica".
  3. Treats of the Edwardian Country House - Entertaining: si tratta di due interessanti video di approfondimento su come organizzare una cena in stile edoardiano al giorno d'oggi: parte1, parte 2
 Avete seguito tutto alla lettera? Allora raccontateci come è andata!!

venerdì 23 novembre 2012

L'etichetta, ovvero la struttura dell'eleganza classica

So bene che quanto sto per scrivere potrà dispisacere a coloro che si ritengono troppo progressisti per riconoscere il valore della tradizione, nondimeno sfido chiunque a confutarmi nei commenti. 

Etichetta e galateo non sono affatto parole del passato: esse sono la struttura dell'eleganza classica

 E' ben noto a qualunque attento osservatore che qualità come l'armonia, la grazia, la disinvoltura si ottengono nella maggior parte dei casi, a meno di qualità innate, solo a prezzo di un costante esercizio ed una diuturna vigilanza su sè stessi. Nulla è più spiacevole di un movimento goffo, di una serie di note alla rinfusa, di una persona impacciata che spintona chiunque incontri. Ciò vale nell'esercizio delle attività artistiche e sportive, ma è altrettanto valido per quel che riguarda la buona educazione. Così come l'abilità infatti si acquisisce con la ripetizione dell'esercizio, e la virtù si apprende con il ripetersi di atti virtuosi, anche le buone maniere sono frutto di allenamento. Un tempo si trovavano facilmente a disposizione precettori pronti ad insegnare il necessario mentre oggi ci dobbiamo affidare a quanto ci insegnano con l'esempio genitori e conoscenti, oppure alle buone letture (alcune delle quali troverete segnalate alla fine).

Ma a che servono le buone maniere? E' un dato di fatto che la nostra natura, per quanto cortese e aggrazziata possa essere la nostra indole, tende naturalmente verso la praticità ed è perciò necessario addomesticarla perchè la convivenza tra gli esseri umani non sia troppo scomoda. Come in ogni società infatti, l'originario diritto di tutti a tutto deve essere limitato, e allo stesso modo la libertà di ognuno di fare a proprio modo deve trovare i suoi confini nelle simili e confinate libertà altrui. Poiché questa limitazione nasce dall'esistenza di altri esseri oltre noi stessi, il vero fondamento sociale dell'educazione si trova nell'altruismo: essere cortesi è in fin dei conti pensare agli altri prima che a noi stessi, al loro piacere prima che al nostro. Chi non comprende questa fondamentale verità non apprende che la lettera del galateo, rimanendo all'oscuro del suo spirito, e si trova così a interpretare una parte che non capisce con gli inevitabili errori che questo comporta. Chi invece accetta questo ruolo, chi si interroga sulle necessità altrui e sul proprio ruolo nella gerarchia, e lo traduce nel rispetto e in gesti solleciti, incarna il vero senso dell'eleganza. E ciò è valido in ogni tempo e in ogni luogo: rispetto, sollecitudine e adeguatezza sono l'indispensabile bagaglio del vero uomo di mondo.

Sapere stare al proprio posto e comportarsi di conseguenza è il nucleo del vero savoir vivre

 La pratica secolare di questa peculiare forma di altruismo e virtù sociale che è l'etichetta si è tradotta in vari volumetti di variabile formato e valore, a partire dal Galateo di Monsignor Della Casa, fino ai moderni manuali. Queste opere non devono essere considerate come una serie di istruzioni senz'anima da mandare a memoria: sarebbe in effetti quasi impossibile ricordare tutto ciò che contengono. Ciò che conta è il motivo per cui si fa in un certo mdo piuttosto che in un altro, o si dice una cosa piuttosto che un'altra. Una volta comprese queste motivazioni, di volta in volta pratiche, morali o storiche, seguire le regole del galateo si trasformerà quasi senza sforzo in naturale buon senso, oltreché nel piacere sempre intenso di saper stare a proprio agio tra la buona società.

Di seguito eccovi tre manuali da non perdere: 
  1. Galateo, ovvero dei costumi, di Mons. G. Della Casa (1558), testo completo in italiano da Wikipedia: per quanto datato resta sempre un caposaldo del genere
  2. Etiquette of Good Society, di Lady Colin Campbell (1893), testo in PDF scaricabile da Internet Archive: se volete conoscere le buone maniere dell'epoca di Downton Abbey questo è il libro che fa per voi
  3. Manners and Rules of the Good Society di Un membro dell'aristocrazia (1913): anche questo testo è scaricabile in PDF da Internet Archive: un po' meno dettagliato del precedente e scritto in modo più discorsivo condito da un pizzico di humour inglese
Avete qualche risorsa da segnalare? Fatecelo sapere, scrivete!



giovedì 22 novembre 2012

Roaring Twenties: la musica di (quasi) un secolo fa

Probabilmente avrete notato che è in corso un massiccio recupero di tutto ciò che ha almeno un centinaio d'anni o giù di lì: serie televisive sull'epoca edoardiana, blockbuster cinematografici su Sherlock Holmes e Dorian Gray, e perfino la moda e il design non disdegnano una certa tendenza retrò. Ovviamente questo non può che farci piacere, dopotutto vuol dire che il passato non è poi tutto da buttare. Ma la domanda che mi faccio mentre scrivo questo post è la seguente: cosa ascolto in sottofondo mentre cerco su internet l'ultima novità in fatto di recupero del classico? Ecco tre suggerimenti:

Max Raabe, il ritorno della musica da cabaret anni '20

Max Raabe & the Palast Orchester. Ha quasi cinquant'anni, ma sembra uscito da un cabaret della Berlino degli anni di Weimar. Voce profonda e suadente, ritmi ballabili o sincopati, stile inconfondibilmente classico: queste le chiavi del successo di questo cantautore tedesco che ha fatto del recupero della grande tradizione del cabaret anni '20 il suo cavallo di battaglia. Lo sentirete cantare in tedesco certamente, ma molto più spesso in inglese con reinterpretazioni di brani come Sex bomb o Oops...I did it again che ormai hanno fatto epoca. Altra caratteristica vincente è lo humor di questo prolifico cantautore che ha cominciato la sua carriera nel 1987 studiando e ristudiando spartiti d'epoca recuperati nei mercatini. La sua prima canzone, Kein Schwein ruft mich an (letteralmente Nessun maiale mi chiama, ma traducibile con il nostro "Non c'è un cane che mi chiami"), riprende quella tradizione di ironia sviluppatasi per bilanciare una atmosfera politica ed economica che si faceva sempre più cupa e difficile.

Easy Virtue, il classico stile inglese sconvolto dallo swing degli anni ruggenti

Easy Virtue Orchestra. Avrete certamento visto il film Un matrimonio all'inglese con Jessica Biel, Colin Firth e Kristin Scott Thomas: si tratta appunto della colonna sonora del film, con tutto il suo swing. La commedia, tratta da una piece teatrale di Noel Coward, è vivace anche se non certo da storia del cinema: la colonna sonora invece è proprio quello che ci vuole per ricreare a puntino l'atmosfera. All'interno si trovano covers di pezzi molto in voga negli anni '20 e '30 quali Let's Misbehave o Makin' Whoopee o altri brani di Cole Porter.  

La leggenda del pianista sull'oceano, la musica tra le due guerre

Ennio Morricone. Se volete davvero immergervi nell'atmosfera dorata di quegli anni ruggenti probabilmente vi saranno d'aiuto anche le composizioni classiche del maestro delle colonne sonore. Brani come quelli suonati da Novecento in La leggenda del pianista sull'oceano sono assolutamente un must, dentro c'è tutta l'energia di quegli anni in cui si pensava che il peggio fosse ormai alle spalle e che il futuro promettesse solo rose e fiori. Sappiamo dalla storia che non fu così, ma di quell'epoca ci resta la fiducia in sè stessi e nel progresso, e il rilassato godimento del presente che traspare anche da quelle note.

E voi come ricreate quell'atmosfera? Qual'è la vostra colonna sonora anni '20?

sabato 10 novembre 2012

Il classico da parati: William Morris & Co.

William Morris (24 marzo 1834-3 ottobre 1896) è stato un titpico esempio di "uomo rinascimentale", ovvero un uomo i cui talenti si sono manifestati in vari campi contemporaneamente. Fu scrittore, poeta, architetto, pittore, decoratore, stampatore, politico socialista. E tutto con un considerevole grado di successo sia tra i suoi contemporanei che tra coloro che gli successero fino a noi oggi. Ma ciò che ci spinge a parlare di lui ancora oggi è la sua carriera di designer applicata ai tessuti d'arredamento e alla carte da parati, una carriera che ne ha fatto una delle figure centrali del movimento Arts & Crafts.



I motivi decorativi creati da William Morris sono immediatamente riconoscibili: motivi floreali fittamente intrecciati eppure voluttuosamente leggeri, piante e fiori che sembrano usciti da un erbario medievale e che si stagliano vividi su raffinati sfondi crema, la ricchezza dell'ornato che ricorda i più ricchi broccati medievali. Dopo centocinquant'anni i disegni originali di Morris continuano ad essere fonte di ispirazione per i suoi continuatori, nonostante la società orginale abbia chiuso i battenti nel 1940 dopo una lunga serie di cambiamenti nel nome e nella composizione societaria. In quell'anno, Arthur Sanderson comperò i blocchi di disegni di Morris dalla ditta che li stampava su commissione, e decise di continuarne la produzione. Oggi sono molte le aziende che stampano carte da parati sulla base dei disegni di William Morris, fra le quali la rinata "Morris & Co.", dimostrando come il fascino di questo classico dello stile inglese vittoriano non sia mai tramontato fin dalla sua prima apparizione nel 1864.


Perchè tanto successo? Anzitutto per la filosofia portata avanti da Morris e dal movimento Arts & Crafts: "Non mettere a casa tua nulla che non ritieni esserti utile o credi essere bello" (The beauty of Life, 1880), una massima valida per la decorazione d'inteni di oggi come di ieri. Un altro fattore di successo è la straordianria varietà del catalogo, con gli stessi motivi riprodotti sia su tessuto che su carta da parati. Ma ciò che più di tutto colpisce nelle crazioni di William Morris ce lo dice lui stesso: "è la forza, la purezza, e l'eleganza del contorno degli oggetti rappresentati, e nulla di vago o indeterminato è ammissibile. Da ciò ci si può aspettare uno speciale grado di eccellenza. Profondità di tono, ricchezza del colore e una squisita gradazione delle tinte sono facili da ottenere nella tappezzeria, e ciò richiede anche quella vivacità e abbondanza di meraviglioso dettaglioche fu la caratteristica particolare dell'arte medioevale pienamente sviluppata." (William Morris, "Texiles" in Arts and Crafts Essays, 1893). Queste motivazioni, unite al successo crescente del Gothic Revival, portarono le stoffe e le carte da parati di William Morris sulle pareti, sui divani, sui csucini e sulle tende degli inglesi, degli americani e in seguito di tutta Europa.


Ecco dunque che il nostro paradigma del classico ritorna: ciò che era già classico per l'Inghilterra vittoriana, ovvero la tradizione medioevale, diventa fonte di nuova ispirazione, rivive e nella sua nuova vita diventa classico a sua volta, come dimostra la continuità ininterrotta dopo più di 150 anni del successo di questi disegni e della fama del suo creatore.


E voi? Avete a casa qualche opera di William Morris? Raccontate!

giovedì 8 novembre 2012

Classico all'inglese: Downton Abbey

Sì, anche io guardo Downton Abbey, lo ammetto candidamente e senza remore. Il motivo è che trovo la cura delle ambientazioni, della scenografia, dei costumi una ottima fonte di ispirazione riguardo a ciò che rappresenta il classico stile inglese.

Highclere Castle, la vera Downton Abbey


La casa. Highclere Castle, la magnifica country house dei conti di Carnavon, che rappresenta la fittizia Downton Abbey del conte di Grantham, è il tipico esempio della casa di campagna inglese dell'aristocrazia tra fine Ottocento e inizio Novecento. Non che prima non esistessero certo, ma solo in questo periodo, tra l'età vittoriana e quella edoardiana, la coutry house diviene il teatro privilegiato di quella complessa trama di relazioni politiche ed economiche che strutturano la upper class dell'impero britannico. Ospitare per la caccia, dare un ballo estivo, organizzare un garden party, sono tutte occasioni sociali che trovano nella casa di campagna inglese la loro cornice. Per far questo ovviamente sono necessarie alcune caratteristiche: servitù numerosa, ampia disponibilità di camere da letto, grandiose stanze da pranzo e sale di rappresentanza (le cosiddette state rooms). 

Abiti femminili stile inglese per i personaggi di Downton Abbey


 I costumi. Sono un campionario meraviglioso della moda inglese fin de siecle. Dai velluti agli chiffons di seta, dal comodo vestito da campagna alla elegante mise da sera troviamo tutto, per gli uomini come per le donne. Ci ricordano regole ormai dimenticate, come quella di cambiarsi d'abito prima di cena o l'etichetta riguardo l'uso del cappello (mai al coperto per gli uomini e permesso ovunque per le donne, meno che a teatro). Osservando attentamente queste immagini ci rendiamo conto di cosa abbiamo perso in nome del progresso a tutti i costi e di come, tutto sommato, un buon corpus di regole e la sua applicazione rendano la vita più godibile, per noi e per chi ci sta accanto.

Downton Abbey, arredamento stile inglese

La stratificazione. Come si suole dire: "Roma non fu fatta in un giorno", ed è precisamente per questo che Roma è quel faro di civiltà che tutti noi conosciamo e ammiriamo. Il tempo, con il suo scorrere inesorabile e le sue conseguenze, aggiunge valore alle cose. Esso seleziona ciò che già ha valore aumentandolo, e attraverso la perdita di alcuni degli esemplari di una categoria aumenta la rarità e il valore dei rimanenti.  Questo principio, applicato alla casa, si risolve nell'accumulo di tipologie decorative e di oggetti di epoche diverse, che ne fanno un museo vivente della sua storia e della storia della famiglia che vi ha abitato. Oggi non siamo più abituati a tutto questo, o lo incontriamo solo raramente. Quale storia può raccogliere infatti un palazzo di vetro e cemento arredato in una notte con mobili Ikea? Emblematica la frase di Lord Grantham al suo futuro erede guardando la grande casa: "Tu vedi un ammasso cadente di mattoni e di tubi che perdono, io ci vedo la storia della mia vita".

Downton Abbey, etichetta e bon ton

La gerarchia. "Ogni cosa al suo posto e un suo posto per ogni cosa", per citare un altro pezzetto di saggezza ancestrale. La società vittoriana, e quella edoardiana che la seguì, erano regolate da una rigida gerarchia. Nella serie notiamo il rapporto tra i personaggi della classe dominante, così come quello tra i membri della servitù. E questi rapporti, lungi dall'essere rapporti di oppressione, sono regolati dalla premura e dall'affetto del padre di famiglia, la cui autorità può a volte essere esercitata con durezza, ma questa durezza non è mai malevola. Lord Grantham è il capofamiglia, così come Carson è il capo della servitù. Ma questa loro qualifica non li rende dei tiranni, permette semmai all'ingranaggio di funzionare seguendo un disegno unitario e coerente.

Ecco qui alcuni spunti di riflessione. Sono certo che avranno stimolato in voi la voglia di commentarli!

mercoledì 7 novembre 2012

La presentazione classica: il biglietto di visita


Ma su.... esistono ancora i biglietti di visita? Certo che sì. E per qualsiasi gentiluomo o gentildonna che si rispetti sono una parte fondamentale della presentazione tradizionale. Oggi siamo abituati a vedere biglietti "di visita", -o "da visita" come sono più comunemente chiamati- soprattutto in mano agli agenti di commercio oppure ai funzionari di banca, comunque per motivazioni puramente professionali. Ma non è sempre stato così. 

Il maggiordono, alfiere delle buone maniere

Anzitutto un po' di storia. Fin da quandonel Settecento le buone maniere vennero istituzionalizzate e codificate, e l'etichetta di corte si diffuse dalle case dei re a quelle della nobiltà e da lì alle case dell'alta borghesia divenendo così la dimostrazione formale della "cortesia", ogni persona che intendesse far visita ad un'altra doveva annunciare il suo nome al maggiordomo affinchè questi a sua volta lo annunciasse al suo padrone, ed egli potesse infine decidere se intendeva o meno vedere il visitatore. Questa mediazione metteva però gli appartenenti alle classi elevate nella imbarazzante situazione di essere interrogati da persone di rango inferiore e per evitare questo sovvertimento dell'ordine costituito si decise di ricorrere ad un'altra mediazione: un cartoncino con su scritti il nome e i titoli della persona. La praticità della cosa conquistò subito e i Signori cominciarono fin da subito a lasciare cartoncini a destra e a sinistra, come mostra la loro menzione perfino in una commedia di Goldoni intorno al 1730.
...era una vera processione di carrozze, di amici, di servitori in livrea, che lasciavano ... una carta di visita, delle quali il portinaio ogni sera recava un vassoio tutto pieno in anticamera (Verga)
In un primo tempo il cartoncino era scritto a mano, in seguito si diffuse la moda di averlo stampato; al principio era presente solo il nome, poi si aggiunsero i titoli, gli stemmi e le corone, i motivi decorativi. Una delle cose che mancava nelle prime "carte di visita" era l'indirizzo, oggi uno degli elementi fondamentali di questo genere di accessorio, ma la mancanza era del tutto giustificata dalla funzione: non vi era necessità infatti che il maggiordomo annunciasse al padrone anche il domicilio del visitatore. L'etichetta prevedeva che le visite avvenissero in una determinata fascia oraria, generalmente nel primo pomeriggio ma ad una certa distanza dal pranzo, e che chiunque volesse far visita si presentasse all'ingresso della casa visitata munito dell'indispensabile cartoncino. Il biglietto di visita era usato sia per una visita estemporanea, sia meglio per annunciare una visita futura, lasciandolo al maggiordomo in qualunque ora del giorno per annunciare l'intenzione di passare nell'ora delle visite.

 il biglietto da visita: la presentazione classica con stile 

Al giorno d'oggi non si usa più farsi annunciare quando si va a trovare qualcuno, una necessità venuta meno sia con il tramonto della figura del maggiordomo che con l'abolizione degli orari di ricevimento. Nondimeno il biglietto da visita è rimasto nell'uso divenendo biglietto di presentazione, un modo pratico per fornire i propri recapiti, prima solo postali in seguito anche telefonici e poi telematici. Esso parla di noi con lo stile dei caratteri, la composizione formale, il tipo di cartoncino scelto (il classico è quello tipo Bristol bianco), le indicazioni presenti.

Il gentiluomo o la gentildonna classici dovrebbero sempre avere con sè biglietti di due tipi: il biglietto da visita personale, da dare agli amici per uso privato, e quello professionale con i contatti utili per i rapporti di lavoro. La sobrietà è raccomandata in entrambi come la suprema delle virtù, con un cartoncino bianco o avorio, l'inchiostro preferibilmente nero o grigio molto scuro, la stampa generalmente a rilievo. Nel biglietto da visita personale gli orpelli e i tratti decorativi dovrebbero essere ridotti al minimo, mantenendo per coloro che si fregiano di un titolo nobiliare la coroncina corrispondente o al limite lo stemma solo impresso a rilievo, e l'indicazioni del nome preceduta dai titoli accademici e nobiliari dei quali si fa uso (da evitare il fantozziano "Dott. Ing. Lup. Man. Pres......", così come il deprecabile uso teutonico di elencare tutti i titoli accademici conseguiti). La forma anche se non lo abbiamo detto prima è quella rettangolare ovviamente (ma non per tutti, a quanto pare!).

E voi, avete trovati in soffitta il vecchio biglietto da visita di un vostro bisnonno? Avte una collezione di antichi biglietti da visita? O forse volete solo condividere un suggerimento con gli altri lettori? 
Commentate pure!

lunedì 5 novembre 2012

Un classico militare: il Trench Coat

Ieri era il 4 novembre, in Italia la festa delle forze armate, e noi vogliamo celebrarlo ricordando quanto di quel mondo è entrato ormai in pianta stabile nei nostri guardaroba, al punto che spesso non lo sappiamo nemmeno. La cravatta per esempio era il fazzoletto dei mercenari croati, il peacoat originariamente copriva dal freddo i marinai di tutta europa, ma ciò che più di tutti i capi d'abbigliamento classico maschile ricorda la sua origine militare è il Trench Coat, ovvero il cappotto da trincea.


 Il Trench: un classico immutato da oltre 100 anni 

Pochi sono i capi dei quali si può dire che siano rimasti immutati sin dall'epoca della loro creazione: il Trench è uno di questi. Basta dare un rapido sguardo per strada in questi giorni piovosi e poi aprire una rivista di moda maschile degli albori della prima guerra mondiale. A quanto sembra l'azienda inglese Aquascutum pretenderebbe di aver inventato il famoso cappotto già intorno al 1850, ma è con il brevetto del gabardine (un tessuto antipioggia) da parte di Thomas Burberry nel 1879 che si fa un reale progresso verso la nascita del trench. Il vero balzo in avanti si fa durante la prima guerra mondiale, quando il War Office britannico decide di commissionare a Burberry oltre un milione di pezzi della versione perfezionata del nuovo impermeabile, facendo in breve tempo del trench uno dei tratti distintivi dell'ufficiale inglese.

 Dick Tracy e il suo classico trench 

Dopo la guerra i personaggi dei fumetti o del grande schermo contribuirono a dare ancora maggiore visibilità all'impermeabile, tramite i personaggi interpretati da Humphrey Bogart o Peter Sellers o anche personaggi dei fumetti come Dick Tracy, dando al trench quell'aura di accessorio indispensabile per il coraggioso uomo d'azione. Quell'aura dura a tutt'oggi, e il trench è diventato ormai quello che si dice un classico intramontabile. Ma quali sono le caratteristiche di un vero trench? Anzitutto il gabardine, il tessuto del quale erano fatti i primi trench coats, sebbene oggi questo tessuto sia riservato alla gamma più alta dati i suoi alti costi di produzione che privilegiano alternative come il cotone filato molto stretto con popeline e twill. Poi le spalline e i ganci a "D" sotto la cintura, che servivano a reggere la fondina con la pistola. Inoltre non va dimenticato che il trench originale è un cappotto a doppiopetto, e che versioni single-breasted si adattano solo a persone di corporatura particolarmente longilinea. Altro tratto distintivo è il pezzo di tela sul davanti della spalla destra, che serviva ad evitare che l'acqua ruscellando sulle spalle si infilasse tra i due petti dell'impermeabile. Infine la striscia di tela che chiude il colletto sotto la gola, che ricorda la funzione principale di questo capo classico: proteggere dalle intemperie durante la malagevole e logorante guerra di trincea. E voi, cosa pensate di questo pezzo di storia? Avete un trench? Quando lo indossate?

sabato 3 novembre 2012

Perchè la musica classica

Quando pensiamo al termine "classico" uno dei primi termini che naturalmente associamo è "musica", e subito la nostra immaginazione vola sulle note immortali delle sinfonie di Beethoven, dei concerti di Mozart, delle sonate di Bach. Tutti e tre i compositori che abbiamo appena menzionato sono morti ormai da secoli, eppure le loro creazioni risuonano tuttora non solo nelle sale dei conservatori e nei teatri, ma le ritroviamo anche nei posti più impensati: al principio di un film di Kubrik, in uno spot della BMW, ad accompagnare la epica "cavalcata" degli elicotteri di Apocalypse Now. 

musica classica, concerto

Ciò che vale la pena domandarsi è: ha ancora qualcosa da trasmetterci la musica classica? E la risposta non può che essere affermativa ogni volta che un brano più o meno famoso ci fa sussultare, ci rilassa, ci emoziona. Di fronte all'avanzare del caos e della frenesia della vita postmoderna il rigore e l'armonia di quelle composizioni si pongono come una difesa di ciò che davvero conta. Non si può in coscienza dire che la musica prodotta oggi, almeno per la maggior parte, possa aspirare a questo ruolo. Ed è per questo che sperimentiamo questo continuo ritorno alle origini, avvalorando ancora di più quella tradizione che ha assegnato a Vivaldi o a Mendelssohn la qualifica e il ruolo di "classico", ovvero li ha posti in cima alla classifica perchè fossero modello per tutto ciò che è venuto dopo. Ascoltare musica classica oggi viene associato ad un certo snobismo, ad un sovrano disprezzo per ciò che offre la contemporaneità, ad una sterile laudatio temporis acti. Ma non si tratta di rimpiangere qualcosa che non verrà più, si tratta invece di apprezzare e preservare perpetuandolo ciò che di prezioso è stato fatto. Non è poi vero che solo la produzione musicale sinfonica e cameristica dal Seicento al primo Novecento faccia parte del canone della musica classica. Sono ormai classiche le colonne sonore di Ennio Morricone o di Hans Zimmer, per esempio.


musica classica: rilassamento ed eleganza

E poi va detto che la musica classica, oltre che gradevole, è anche utile. Studi recenti hanno dimostrato il valore terapeutico della musica classica nella cura degli stati di ipertensione da stress. L'ascolto di musica classica per trenta minuti al giorno viene raccomandato da uno studio americano per aumentare il nostro stao di benessere psico-fisico. La cosa non può meravigliarci: la musica classica infatti, a differenza di quella leggera, ha bisogno di concentrazione per essere apprezzata. Solo concedendo alle note la giusta dose di concentrazione possiamo staccare per un attimo da tutto ciò che ci opprime quotidianamente, per poi farvi ritorno rinvigoriti, rigenerati. La musica classica può insomma essere la nostra vacanza giornaliera, e questa funzione -oltre al valore intrinseco della musica classica in sè- non fa che aumentare la reputazione di questo genere tra tutti coloro che praticano la raffinata arte del savoir vivre.

venerdì 2 novembre 2012

Il Borsalino: un classico da 150 anni



Lo avete sicuramente visto tutti, e ognuno di noi lo ha indossato almeno una volta. Che fosse quello del nonno o quello di Humphrey Bogart, che lo indossasse Harrison Ford oppure i Blues Brothers, la sua linea inconfondibile è entrata nell'immaginario fin quasi dal tempo della sua creazione, più di 150 anni fa. Parliamo ovviamente del Borsalino.
Un Borsalino, un classico da 150 anni

Il cappello di feltro soffice con la cupola incavata e pizzicolttata da entrambi i lati, la classica fascia col fiocco, e la tesa di media ampiezza, era già un classico negli anni venti quando perlopiù era parte del corredo della moda femminile, come cappello sportivo. Il suo nome americano, fedora, deriva dal nome di un personaggio teatrale, la principessa Fedora appunto, che lo indossava quando la piece fu messa in scena nel 1889 con Sarah Berhnardt nel ruolo principale. Gli uomini all'epoca usavano un altro classico: l'homburg, il copricapo di origine tedesca reso celebre da re Edorado VII. Con i rivolgimenti seguiti alla prima guerra mondiale, e il conseguente tracollo dei modi e delle mode della belle epoque, l'homburg andò in soffitta e gli uomini trovarono nel borsalino un valido sostituto. Pratico ma al tempo stesso elegante, il cappello della nota azienda italiana venne cooptato nel guardaroba maschile da città, ottimo compagno del morning dress. La sua fortuna durò per quasi un quarantennio, poi cominciò il declino dovuto alla rinuncia generalizzata ai copricapi da parte del pubblico maschile, prima americano e a seguire quello europeo. L'abbigliamento diveniva più casual, le macchine diventavano più stette, e il cappello -quale che fosse- cominciò ad essere lasciato a casa.

 Alain Delon nel film Borsalino: eleganza e stile con il cappello italiano 

Ma è qui che si vede la stoffa (è il caso di dirlo) di un classico: come la fenice che risorge dalle sue ceneri, ecco che il borsalino ritorna prepotentemente sulle scene e da accessorio diventa simbolo. E' il cappello delle spie, che lo portano sul trench come aveva fatto Humphrey Bogart in Casablanca; corona lo charme di Alain Delon nell'omonimo film del 1970; è il cappello dell'avventuroso Indiana Jones negli anni '80; balla sulla testa dei Blues Brothers oppure segue i passi sincopati di una stella del pop come Michael Jackson. Eccola dunque una delle caratteristiche che fanno un classico: l'eterno ritorno. Magari viene reinterpretato, a volte anche del tutto travisato rispetto alle intenzioni di chi lo aveva creato, ma un classico ritorna sempre, si reinventa, diventa simbolo. Perchè un classico, ormai lo sappiamo, non muore mai! Vuoi saperne di più? Ecco un suggerimento di lettura.

giovedì 1 novembre 2012

Cosa è un classico e perchè ci interessa

Come avete certamente notato, qui ci occupiamo di classici, e ci proponiamo di farlo nel senso più ampio. Dal classico dei testi classici all'abbigliamento classico, dalla più classica delle gaffes ai classici della letteratura e dell'arte. Approfondendo, cercheremo anche di sondare la nozione stessa di classicità: cosa fa di un classico un classico? E cosa ci vuole per essere un classico? E infine, la domanda più attesa: ha senso il classico nel globalizzato mondo del XXI secolo? 

Italo Calvino scriveva: "un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire". Questa definizione, a mio avviso, è valida non solo per i libri. Essa è estendibile: un accessorio, un mobile, un piatto di cucina tradizionale, uno stile, tutto può essere classico. Basta solo che sia caleidoscopico, che ogni volta che lo giri sottosopra tu ne possa scorpire un lato nuovo, o un nuovo uso, o che semplicemente -mantenendosi uguale a sè stesso- induca qualcosa di nuovo in noi. In un certo senso il classico, lungi dall'essere l'archetipo della reazione e della bigotta conservazione, è la molla del progressismo. 

Mi si permetta anche un rimando classico, nel senso letterale del termine: la definizione di "classico" deriva dallo scrittore latino Aulo Gellio, che nel II secolo dopo Cristo definiva "classicus" uno "scriptor non proletarius", ovvero in sostanza uno scrittore "di prima classe", "d'eccellenza". Ed è proprio a questo che punteremo qui, ad illustrare l'eccellenza, al fine di trarne esempio e godimento. Quanta carne al fuoco, mi direte. Certo, ma non tutta in un sol boccone. Un assaggio alla volta anzi. Una pillola di classicità che possa farci riscoprire noi stessi o che ci spinga a migliorarci ogni volta un po' di più. Ne vale la pena!